Con i precari si risparmia? No, si va alla rovina
La crescente precarizzazione del personale è giustificata dalle RSI come un “male necessario”, dovuto a necessità di risparmio. L’efficacia di questa misura è però tutta da dimostrare, come spiega in questo dettagliato articolo l’economista ed ex collega Silvano Toppi.
Tra le parole dell’immancabile inglese che hanno fatto la mitologia della conduzione manageriale negli ultimi trent’anni ce ne sono due che nell’applicazione e negli effetti sgominano ancora. “Downsizing”, il cui obiettivo sta nella parola nuda e cruda (dimagrimento, ridimensionamento, snellimento) e cioè migliorare i conti economici dell’azienda riducendo le unità organizzative e il personale. Riducendo cioè i costi. “Outsourcing” (traducibile in “approvvigionamento esterno”) che, per dirla in termini semplici, è l’affidamento ad operatore o fornitore esterno di un’attività dell’azienda. Su questo termine ci sono infinite distinzioni. In realtà si può esternalizzare pressoché tutto (la produzione di beni e servizi, la ricerca, la manutenzione, la vendita di capannoni industriali, persino la gestione); lo scopo è ancora essenzialmente quello di ridurre i costi in vari modi (con economie di scala perché il fornitore esterno riunisce le attività di diverse imprese dello stesso settore, per la trasformazione dei costi fissi in costi variabili, ricorrendo alla maggior flessibilità occupazionale) oppure quella di supplire alle deficienze dell’azienda a causa della sua piccola dimensione o capacità (seguire i mutamenti tecnologici-organizzativi, ad esempio nell’informatica, dover assumere impiegati a tempo pieno per la gestione fiscale o la distribuzione).
Alla base di tutta questa impostazione manageriale, di origine anglosassone, stanno due grandi mutamenti avvenuti dagli anni Ottanta in poi con la “rivoluzione” neoliberista. L’una ha provocato la ipertrofizzazione della dimensione oggettiva del lavoro. L’altra, pressoché conseguente, il passaggio dall’impresa organica, altamente integrata al suo interno, all’impresa che, di fatto, finisce in buona parte esternalizzata (tanto che si parla anche in termini tecnici di impresa a rete o addirittura di impresa virtuale, comunque postfordista).
Con il primo mutamento il lavoro è stato ridotto a un costo. Si identifica cioè il valore economico che produce il lavoro solamente con la quantità di oggetti fabbricati o di servizi realizzati. In altre parole: non è il lavoro che crea beni e servizi, sono la quantità di beni e servizi da produrre entro un obiettivo prefissato (managerialità “per obiettivi”, nota anche alla TSI) che determinano il valore massimizzato del lavoro. Si sono rovesciate le posizioni: non il lavoro necessario per produrre un bene ma il lavoro concesso per produrlo. Non è solo la ricerca e la mitizzazione della produttività (maggior produzione per unità lavorativa) ma è il produttivismo, cioè il massimo sfruttamento possibile della risorsa umana (che si traduce poi spesso in demoralizzazione dei dipendenti, perdita di salute, rischi psicosociali elevati: innegabili flagelli del mondo attuale del lavoro).
Con il secondo mutamento, si è voluto portare all’interno stesso dell’azienda il mito della concorrenza, concorrenza che mette ogni cosa in mano al mercato con lo scopo dichiarato di abbattere i costi e, non dichiarato, di aumentare i profitti. Destrutturando l’azienda con l’esternalizzazione della produzione o di servizi, si tende in pratica ad applicare sino all’osso il primo mutamento, sia riducendo il costo del lavoro, sia portando fuori quelli che si ritengono problemi o i rischi di maggior costo o i rischi sociali di conduzione all’interno (computo delle ore di lavoro, costo straordinari, tempi morti di attesa nell’uso delle strutture o nell’utilizzazione del personale o costi fissi, costi assicurativi e sociali crescenti con l’età, personale e relativi costi per la manutenzione del materiale, impegni formativi del personale e quindi tempo perso nella produzione).
Dal punto di vista della gestione aziendale e anche della “politica” aziendale, se l’obiettivo è quello della riduzione dei costi, del risparmio forzato, della necessaria dimostrazione di alto produttivismo (avviene nei confronti degli azionisti oppure, per un servizio pubblico, nei confronti dei politici che vedono sempre spreco come buon pretesto per privatizzare o anche degli utenti che pretenderebbero la gratuità di ogni servizio), sembrerà che questa è l’unica via percorribile ma che è, soprattutto, quella che dovrebbe poter annientare i “terzi incomodi”. Sostanzialmente in tre modi:
- dapprima, perché adotta un sistema contrattualistico (il contratto con il fornitore di servizi e produzioni esterno) che individualizza di molto la rimunerazione, sottraendola anche a controlli specifici, regole e responsabilità ben precise. Che sarebbero invece palesi e ineludibili in una convenzione collettiva o con uno statuto specifico del personale;
- in secondo luogo, perché frammentizza non solo il lavoro (o i modi di far lavorare) ma il personale stesso, creando tensioni o competitività sia tra il personale dentro l’azienda o del personale interno nei confronti degli esterni (con l’immancabile sospetto di una fatale eliminazione sistematica di posti di lavoro), sia tra i “fornitori” esterni in forte competizione tra di loro perché la domanda risulterà comunque inferiore all’offerta o sarà spesso recepita come discriminatoria o con assegnazioni incomprensibili (e il sospetto di favoritismi, di combutte, di dumping salariale e sociale cresce quasi fatalmente, anche aldilà di quella che è la realtà);
- in terzo luogo, vengono con questo sistema gradatamente indebolite, se non atrofizzate, tanto la dimensione soggettiva quanto la dimensione collettiva del lavoro. La prima perché la persona che lavora e produce all’interno, sentendosi come svuotare l’azienda in strutture e personale, perde il senso di appartenenza, si demotiva, vengono così meno l’impegno, la qualità, la dedizione, lo spirito di gruppo. La seconda perché si smorza la forza contrattuale dei lavoratori interni all’azienda, la presenza ed efficacia del sindacato.
Al di sopra di tutto questo, come effetto nefasto di tutta questa impostazione economica, c’è comunque proprio la dimensione soggettiva del lavoratore, la persona del lavoratore- sia in un caso (personale interno) sia nell’altro caso (esterno). Ridotta solo a un costo, con tutti i modi e le conseguenze con cui si manifesta (licenziamento, precarizzazione, flessibilizzazione, lavoro su chiamata, ricatto, duplicazione del lavoratore perché deve rendere il doppio) è metodicamente atrofizzata, sottraendo non tanto e non solo diritto al lavoro ma anche diritto del lavoro. Non a caso uno dei problemi più devastanti riconosciuto nella letteratura critica all’”outsourcing”, ad esempio, è proprio la mancanza o la quasi impossibilità di un inquadramento giuridico preciso della forza lavoro. Sono numerosi gli autori che, esaminato questo problema, parlano di “zona grigia” del salariato, di “falsi indipendenti” o “falsi salariati”.
Quanto può sembrare un buon affare di conduzione gestionale per l’azienda, in realtà è la sua rovina e il suo suicidio.
L’azienda (la RSI, nel caso concreto) si svuota, finisce per diventare una casa cui gradatamente si tolgono i muri portanti. Strutture importanti e determinanti non solo per la produzione, ma per la giustificazione stessa dell’esistenza dell’azienda, finiscono all’esterno. Sgretolandosi la casa si sgretolano anche il senso di appartenenza, l’identità. Si rischia una perdita di controllo, in parte operativa poiché sempre più dipendente o condizionata in mezzi, strutture e persone dall’esterno, in parte “politica”, perché rischia di inficiare l’impostazione “programmatica” di un’azienda, soprattutto se di servizio pubblico, anche perché porta acqua al mulino della privatizzazione o semiprivatizzazione .
In queste situazioni, prevalendo sempre il problema dei minori costi possibili, è fatale che anche l’obiettivo della qualità venga meno. E’ d’altronde una delle constatazioni critiche generali al sistema “outsourcing”. E’ in fondo ciò che capita sempre più spesso con conseguenze nefaste all’ente pubblico con il ricorso ad appalti, soprattutto di servizi, con il pretesto della maggior efficacia del privato o del minor costo possibile (si pensi ai casi delle mense scolastiche).
Risulta poi anche che, volendo ottenere comunque risultati adeguati dall’esternalizzazione, le cose si complicano alle volte in misura quasi impraticabile, pure per i costi rilevanti: occorrono infatti di frequente sistemi di relazioni particolari e di controllo che gonfiano a dismisura la parte amministrativa-burocratica a danno degli altri settori di produzione, come il settore dei programmi, ad esempio, o quello dell’adeguamento tecnologico delle proprie strutture tecniche indispensabili, o quello della formazione o dell’aggiornamento del personale. Non a caso, anche in termini critici generali, si dimostra che questo sistema “riduce le economie di scopo”, cioè le attività economiche che vanno destinate all’obiettivo fondamentale dell’azienda (per la RSI, produrre appunto programmi di qualità).
L’esternalizzazione ha quindi qualche vantaggio, ma comporta rischi e conseguenze enormi, persino in termini di maggior costi, venendo meno al suo obiettivo principale, perché –tanto più per un’azienda di servizio pubblico le cui principali finalità sono particolari e non tutte “aziendalizzabili”– ne snaturano l’esistenza, ne mettono in forse la giustificazione e la continuità operativa, rendono problematico l’autocontrollo. Non dovrebbe quindi essere un “sistema” da applicare, ma al massimo uno strumento cui ricorrere per necessità, obbligatoriamente in maniera trasparente, giustificabile, controllabile non solo dalla gestione amministrativa, ma dall’altro più importante protagonista interno, il personale dell’azienda.
Silvano Toppi