L’SSM a colloquio con Cathy Flaviano, nuova responsabile del Dipartimento cultura e società

Qualche giorno fa Cathy Flaviano, nuova responsabile del Dipartimento cultura e società della RSI, ci ha concesso una lunga intervista. Per noi, per il sindacato, è stata l’occasione di conoscerla e di farla conoscere. È stata pure l’opportunità di porgerle il nostro benvenuto. Cathy Flaviano, dopo avere occupato una posizione di grande prestigio e responsabilità presso il settore cultura della SRF a Zurigo, ha deciso di trasferirsi nella Svizzera italiana per guidare il dipartimento da poco varato.

D: In questi pochi mesi alla RSI che idea si è fatta di questa azienda?

R: Se devo essere sincera, mi viene in mente il titolo di un film proiettato al Festival di Locarno, un paio di anni fa: “Same, same but different”. Nel senso che la RSI è una tipica unità aziendale SSR: si producono programmi analoghi a Zurigo o a Ginevra. Si affrontano gli stessi temi e le stesse discussioni anche se spesso in modo diverso.

Culture diverse possono anche portare a approcci e modi di organizzarsi diversamente.

Comunque, è importante sottolineare che, in ogni caso, parliamo di un lavoro giornalistico, della produzione di programmi televisivi, radiofonici e digitali. La cronaca regionale, che sia Schweiz Aktuell o Il Quotidiano, segue gli stessi principi e risponde alle stesse esigenze. Così come tutte le seconde reti radio della SSR – SRF 2; RTS 2 e Rete Due – sono canali culturali.  In Ticino, così come a Zurigo o a Ginevra, l’azienda è composta da professionisti seri che vogliono fare bene il loro lavoro. Questo è ciò che conta.

D: Per cui, malgrado lei arrivi dalla Svizzera tedesca, non si è trovata spiazzata?

R: Spiazzata assolutamente no. Forse un po’ bloccata, frenata.

D: Sarebbe a dire?

R: Io sono una giornalista e so che ogni lingua possiede le proprie espressioni, le proprie sfumature.  Per me, in questo senso, esiste ancora qualche limite linguistico. Non padroneggio ancora la lingua italiana bene quanto quella tedesca e quindi, talvolta, sono forse un po’ frenata da queste difficoltà. Dirò di più: la mia cultura è tipicamente svizzero-tedesca così come lo è la mia etica professionale.

D: E questo non le ha causato nessun problema?

R: No, io sono una persona molto schietta, molto diretta, sono, come potreste dire voi, un po’ “zucchina”. Forse, proprio per questo, passo meglio perché si capisce che sono ancora un po’ fuori contesto. C’è più comprensione. Nessuno, finora, mi ha mai fatto pesare la mia provenienza.

D: Quali sono state le sue esperienze precedenti?

R: Prima di arrivare in Ticino era Capo Stato maggiore della cultura presso SRF a Zurigo. Ho iniziato a lavorare come giornalista nel 1995, sempre a SRF e da allora ho occupato diverse posizioni nell’azienda, sia in Radio, sia in TV.  Ho diretto anche alcuni progetti molto importanti, come produzioni trimediali oltre, ad esempio, la riorganizzazione della redazione culturale di SRF e il suo trasferimento da Zurigo a Basilea.

D: Per cui, lei lascia la direzione dello Stato Maggiore della cultura a Zurigo per prendere in mano il nuovo dipartimento cultura e società a Lugano. Come si spiega? Chi glielo ha fatto fare?

R: Il mio ex capo. Lui ha visto il concorso e mi ha detto: “guarda Cathy che questo fa per te”. Io, all’inizio era titubante: “cosa vado a fare in Ticino”? Ma lui ha insistito. Ci ho pensato e alla fine ho acconsentito. In fondo, a me, ciò che più interessa è il compito che mi viene affidato e non tanto il luogo dove lo devo svolgere. Visto che la mia esperienza, competenza e biografia me lo permettevano, sarebbe stato un peccato rinunciare a un’esperienza simile pur essendo lontana dal mio contesto abituale. D’altra parte, la distanza tra Lugano e Zurigo è sempre più breve. Si può scendere la mattina, lavorare e tornare a Zurigo la sera stessa, volendo.

D: Certo che qui in parecchi si sono chiesti: “ma questa qui cosa ci viene a fare? Rinuncia a un posto di grande responsabilità e prestigio a Zurigo per venire in Ticino?

R: Questo è un vostro problema. Io personalmente sono molto pragmatica. Anzi, venendo da fuori non conosco tutti i problemi dell’azienda ma proprio per questo non mi faccio nemmeno influenzare da certi meccanismi, da certi pregiudizi. In fondo mi dico: “io devo fare un lavoro”. Se funziona, bene, se non funziona, si cambia. Non avendo legami particolari, perlomeno per ora, con la Svizzera italiana, posso sempre ritornare da dove sono venuta o andare da un’altra parte.  Oggi, posso dire che non ho assolutamente alcun rimpianto.

D: Ma allora lei è venuta per restarci o il suo è solo un soggiorno temporaneo?

R: Non so, non faccio mai progetti a lungo termine. Come dicevo prima, a me interessa portare a termine il compito che mi è stato affidato. Se fra qualche anno, dovesse aprirsi un’altra posizione che mi interessa, che so, a Losanna, io la valuterò. Quella di venire in Ticino, così come molte altre decisioni professionali, prese nella mia vita, non è stata un’idea per “l’eternità”. Mi sono trasferita nella Svizzera italiana animata da un unico obiettivo: “ora mi dedico a realizzare questo progetto”.

D: Insomma, dipende da tante cose?

R: Si infatti, è giusto che sia così.

D: Come si è posta di fronte al fatto che ha dovuto prendere in mano un dipartimento già disegnato da altri?

R: Ho visto il progetto, l’ho valutato, lo ritengo fattibile, altrimenti non avrei accettato. Evidentemente, ho delle mie idee ma sto cercando anche di capire meglio il contesto culturale e sociale in cui mi muovo. Alla fine, si tratta però di compiere un lavoro giornalistico e organizzativo che ritengo di saper fare.

D: Ma il fatto di avere trovato addirittura un organigramma con delle posizioni precise e già ben definite, l’ha veramente facilitata?

R: Si, mi ha facilitato ma anche limitato.  Chi ha concepito il progetto lo ha fatto con cognizione di causa, conoscendo il contesto e il pubblico. D’altra parte, anch’io ho la mia da dire, soprattutto dopo quanto è stato comunicato a tutti, qualche settimana fa, dalla Direzione generale.

D: Sì, ma aldilà dei risparmi, questo progetto lo sta plasmando a suo modo o no?

R: Certo, faccio le mie riflessioni, le mie valutazioni…è comunque un progetto vecchio di due anni. Nel frattempo, diverse cose sono cambiate.

D: Ma come si sta muovendo? Accorpare cultura e società non è un esercizio così semplice…

R: Ci sono riusciti i colleghi a Losanna, ci riusciremo anche noi. Secondo me, tutto dipende dall’atteggiamento e dalla serietà dei collaboratori. Il cambiamento non deve essere vissuto come un peso, una minaccia, ma semmai come la creazione di un valore aggiunto. Il processo di contaminazione dei due settori, che io preferisco chiamare una fecondazione di idee, passa attraverso una ridefinizione di ciò che si è fatto finora. Ciò non significa che l’animazione deve forzatamente diventare più seriosa e viceversa la cultura deve assumere atteggiamenti più ludici. Assolutamente no!

Facciamo un esempio: un gioco televisivo, pur rimanendo tale, può avere dei contenuti didattici. Alla fine, sia i concorrenti che i telespettatori, pur divertendosi, hanno imparato qualcosa di nuovo. Dall’altra parte, si possono scovare delle strategie per promuovere e approfondire la cultura con modi e toni diversi, più divulgativi senza per questo essere banali.  Ciò ci permetterebbe, oltretutto, di ampliare il pubblico che segue i nostri programmi.

Infine, c’è tutta la questione dello sviluppo digitale. Bisogna trovare le giuste modalità per arrivarci, non solo per il dipartimento cultura e società ma anche per lo sport e l’informazione.  Si stanno già muovendo i primi passi, i colleghi dei due ex dipartimenti, si contattano e lavorano assieme, verificando le possibili convergenze. Confrontano i loro rispettivi modi di lavorare e trovano insieme delle soluzioni.

D: Quale è stata la rispondenza dei colleghi di fronte a questa sfida? Sono tutti entusiasti?

R: Posso capire che qualcuno abbia ancora dei timori. Molti colleghi della “cultura” ancora pensano che non hanno nulla da spartire con quelli dell’intrattenimento e viceversa. Vedo però anche una grande volontà di aprirsi, di mettersi in gioco. Succede sempre così quando si mettono assieme persone provenienti da percorsi diversi. Dopo un po’, ci si accorge che si fa lo stesso lavoro e che ci possono essere delle convergenze. Così facendo si allargano le prospettive, si trovano altri modi per risolvere i problemi. È vantaggio per tutti.

D: Molti leggono questo accorpamento dipartimentale come un tentativo di ridurre il personale. D’altra parte, quello che ha detto il Direttore Marchand, recentemente, non ci fa ben sperare.

R: La prima cosa che io ho chiesto, durante il colloquio di assunzione, era sapere se l’accorpamento doveva essere un programma di risparmio. La risposta è stata: assolutamente no! Questo è però successo a gennaio-febbraio di quest’anno, quando gli ultimi piani di risparmio non erano ancora stati annunciati. Ora, ci toccherà agire di conseguenza.  L’unico vantaggio è che, trovandoci in una fase di riorganizzazione, i risparmi possono essere implementati più facilmente. Esistono maggiori spazi di manovra. Come annunciato dalla Direzione, verranno valutate, in prima battuta, le fluttuazioni naturali e i prepensionamenti. Dovrò anche capire dove bisognerà assolutamente sostituire le partenze e dove, invece, vi si potrà rinunciare. Il tutto, non è comunque facile. L’unica certezza è che si deve risparmiare.

D: Come ci si pone, in quanto capo dipartimento, di fronte al fatto che bisogna risparmiare e che si dovrà continuare a farlo?  Il DG Marchand ha infatti affermato che di tagli ne potrebbero arrivare ancora?

R: Io faccio il mio lavoro, faccio del management mediale sapendo in quale mondo mi muovo. Non è necessariamente esaltante dover fare dei risparmi. È sicuramente più gratificante fare delle trasmissioni con molti soldi. Tuttavia, da quando nella nostra vita sono entrati di prepotenza i cellulari, il mondo è cambiato e con esso anche il nostro lavoro e la nostra azienda. Il mio compito è trovare la via per conformarci a queste nuove realtà.

D: Certo, il mondo è cambiato, anche quello dei media. Ma secondo lei la SSR ha una strategia sufficientemente chiara per affrontare questi mutamenti o stiamo navigando a vista?

R: Le idee sono chiare. Tuttavia, se fossimo un’azienda qualsiasi, senza i limiti giuridici e politici imposti alla SSR, ovviamente ci saremmo già mossi da tempo. D’altra parte, il contesto odierno ci obbliga a ripensarci profondamente, a ripensare il concetto stesso di servizio pubblico. In fondo, molti di noi continuano a ritenere che radio e televisione siano due media distinti. Non è più così. Proviamo a immaginarci di inventare ex-novo il “servizio pubblico” nel contesto economico e tecnologico attuale? Sarebbe un’azienda ancora molto più digitale di quello che è oggi.  Ma tornando alla sua domanda, penso che a livello di DG, le idee ci siano ma non vorrei essere al posto di Gilles Marchand. Ogni volta che propone cambiamenti, il mondo politico lo attacca, più che sostenerlo.

D: Tante volte si ha l’impressione che, malgrado la SSR, il 4 marzo 2018, sia stata plebiscitata dal popolo, si continui a fare delle concessioni a quelli che “non ci vogliono bene”. Il canone è stato plafonato, abbiamo ceduto molta pubblicità (basti pensare che la decisione di rinunciare al blocco pubblicitario, a metà dei film di prima serata, ci è costata, in un solo anno, 12 milioni di franchi). Ora diamo persino libero accesso ai nostri archivi. Insomma, sembra quasi che dobbiamo continuamente concedere per non scontentare i nostri detrattori. Ma è giusto? Non va messo, prima o poi, un punto finale a questo atteggiamento rinunciatario?

R: È vero che è stato stabilito un tetto massimo per il canone per la SSR a 1,2 miliardi. Ma sono comunque molti soldi, oltretutto garantiti ogni anno. Ciò, ci permette di pianificare il nostro lavoro indipendentemente dalle fluttuazioni del mercato. Quanto alla pubblicità, beh, il fatto di non poterla sfruttare anche sull’on-line (per una scelta politica) sicuramente ci penalizza. Credo comunque che prima o poi bisognerà mettere un punto finale a tutte queste concessioni. D’altra parte, esiste nel paese una richiesta di riformare il concetto di servizio pubblico. Non è solo la politica a chiederlo, lo chiede anche il pubblico. Dopodiché è forse anche vero che non eravamo totalmente pronti ad affrontare queste dinamiche. Però preferisco guardare avanti e capire come ci possiamo riposizionare in un mondo in continuo cambiamento, valutando rischi e opportunità con molta attenzione.

D: Cosa pensa del sindacato?

R: Ho sempre fatto parte delle organizzazioni professionali e sindacali. Sono stata iscritta alla SJU la “Schweizerische Journalistinnen und Journalisten Union”, poi di SSM, e adesso faccio parte dell’associazione dei quadri.

D: Quanto è importante secondo lei, proprio in un momento così delicato, avere un sindacato attento ma anche critico, (se necessario), rispetto alle decisioni della Direzione.

R: Ritengo che il sindacato sia importantissimo ed è giusto che tuteli i diritti del personale. Ciò non significa, però, che debba sapere tutto o essere sempre coinvolto su tutto.  Sono convinta che, in ogni caso, ognuno debba mantenere il proprio ruolo, le proprie competenze e specificità.  Mi piace un sindacato che sia critico ma costruttivo. Che abbia un approccio scettico rispetto a certe decisioni ma che sia anche capace di confrontarsi, di discutere, di proporre, e non limitarsi alla semplice chiusura. Il rapporto deve essere di complementarietà e non di conflitto.

D: Le faccio notare, a questo proposito, che dopo la presentazione del primo piano di risparmio, nel 2016, tutto il personale SSR era stato sollecitato dalla DG a presentare delle proposte alternative per ridurre i costi e salvare posti di lavoro. Ebbene, sono state presentate centinaia di idee, non ne è stata considerata nemmeno una.

R: Non sono stata coinvolta in questa procedura, né sono informata su tutti i dettagli e quindi mi astengo da qualsiasi commento.

D: Per il piano R, varato lo scorso anno, dopo il voto del 4 marzo, il sindacato SSM, in particolare a Ginevra e Lugano, ha chiesto alle rispettive direzioni di mettere sul tavolo tutte le cifre necessarie per poter verificare l’esistenza di margini sulle spese e gli investimenti e proporre eventuali correttivi in alternativa al taglio dei posti di lavoro. È stato un esercizio lungo e faticoso. Purtroppo, abbiamo ricevuto solo una parte di ciò che chiedevamo, ma soprattutto abbiamo avuto l’impressione che l’azienda non fosse particolarmente interessata a condividere lo sforzo. Allora, in queste condizioni, come si fa a essere propositivi se non ti viene data, concretamente, la possibilità di esserlo?

R: Non conosco la vicenda, che è precedente al mio arrivo e non so quali siano state le informazioni condivise e quali no. Ritengo, come principio generale, che il sindacato debba essere messo nella condizione di poter svolgere il proprio lavoro e potere fare delle proposte. Lo stesso vale per la Direzione che deve poter svolgere il proprio compito e portare avanti le sue proposte e la sua visione per il bene del futuro dell’azienda.

D: Facciamo un caso ipotetico: se lei dovesse prevedere dei tagli nel suo dipartimento e se il sindacato le chiedesse delle cifre concrete per poter contrapporre delle proposte alternative al semplice taglio di posti di lavoro, lei sarebbe disposta a mettersi in gioco?

R: Io sono sempre pronta a mettermi in gioco e sono aperta al dialogo e al confronto. Come già ribadito in precedenza non si può sempre condividere ogni informazione.  Dipende dal problema che si pone. Se ad esempio nel team tutti fossero disposti a decurtarsi il tempo di lavoro, il problema sarebbe già risolto. Se invece bisogna percorrere altre strade è giusto che vengano fatte delle proposte e che vengano discusse. Fermo restando il fatto che è mio diritto ma anche mio dovere prendere una decisione, anche velocemente, secondo le priorità del dipartimento. Resto comunque dell’idea che il confronto sia sempre molto utile.

 D: Il suo nome e cognome ci portano in Italia. Ci può raccontare qualcosa di lei, della sua storia famigliare?

R: I miei genitori sono irpini, si sono conosciuti giovanissimi a Basilea, agli inizi degli anni ‘60: avevano poco più di 16 anni. È una classica storia di emigrazione. Mio padre ha raggiunto i fratelli più grandi precedentemente emigrati in Svizzera. Mia madre, invece, ha seguito una famiglia del paese, già trapiantata qui. Mio papà, per anni, come tutti gli emigranti, ha sognato di poter tornare, prima o poi, al paese. Poi però, a un certo punto, alla fine di una vacanza in Italia, espresse il desiderio di tornare a casa. La casa era quella di Basilea e non più quella in Irpinia. Il suo processo di integrazione ha aiutato anche noi. Lui, essendo una persona molto aperta, ha voluto che noi crescessimo come tutti i bambini svizzeri, facessimo le stesse cose, frequentassimo le stesse scuole. Proprio per questo, ritengo di portare in me al contempo l’istintività italiana e la razionalità svizzera. È un grande dono che i miei genitori mi hanno fatto: aiutarmi a integrarmi e nello stesso tempo non dovere negare le mie origini. Tuttavia, se mi chiedi qual è la mia identità profonda ti rispondo che è sicuramente quella elvetica.

D: Lei è figlia di immigrati, ci possiamo aspettare da lei una particolare solidarietà per il personale in una fase in cui non si sa dove si va a sbattere?

R: Non solo la mia biografia, è la mia etica personale che mi porta a essere in buoni rapporti con tutti quanti, indipendentemente dal loro lavoro o dalla loro posizione in un’azienda o nella scala sociale più in generale. Ho lo stesso rispetto per tutti, non faccio differenza.

D: Ultima provocazione, alcuni “rumors” dicono che Cathy Flaviano potrebbe diventare la nuova direttrice della RSI. Lei cosa dici?

R: Non sono venuta in Ticino per diventare direttrice. Oltretutto, il periodo che ci separa dalla nomina del prossimo/a direttore/trice, è troppo ravvicinato. Non mi basterebbe per accumulare una sufficiente conoscenza della Svizzera italiana. Ci vorrebbe una persona meglio radicata nel territorio. Se comunque mi si chiedesse di fare il concorso, ci potrei pensare, non lo escluderei a priori. Non è comunque il mio attuale obiettivo. Detto francamente, non saprei nemmeno se un compito simile mi potrebbe piacere.

Grazie