Perché questa manifestazione
Testo del discorso ufficiale del comitato SSM, Sezione di Lugano
Care colleghe, cari colleghi, care amiche e amici del servizio pubblico radiotelevisivo,
siamo qui oggi per fare una cosa che non avremmo mai immaginato di dover fare.
Siamo qui per difendere l’esistenza di un patrimonio comune, di un bene di cui ogni paese libero è dotato, e che considera elemento centrale della propria identità, nonché strumento di coesione nazionale: la radiotelevisione di servizio pubblico.
Per ragioni difficilmente comprensibili è proprio la Svizzera, paese che forse più di ogni altro è basato su una convivenza non facile, che va continuamente ridefinita e ricostruita, il primo paese al mondo a mettere in discussione l’utilità e l’importanza di uno strumento che altri popoli difendono gelosamente.
Ma siamo qui anche per anticipare, con l’immaginazione, uno scenario drammatico, che mai avremmo pensato di dover temere.
Lo scenario che ci troveremo davanti il primo gennaio 2019, quando – nel caso dovesse venir accettata – l’iniziativa No Billag esplicherà tutti i suoi malefici, spietati effetti: l’inesorabile chiusura definitiva delle porte che abbiamo dietro di noi, e di quelle di tutte le altre radio e televisioni pubbliche e di quasi tutte quelle private in Svizzera.
Solo qui, a Comano (e a Besso), oltre 1100 colleghi e colleghe perderanno il proprio posto di lavoro, e numerose aziende private perderanno il loro più importante cliente.
Redattori e redattrici, animatori, cameramen, autisti, tecnici, programmisti musicali, pittori, sarte, falegnami, registi, scenografi, segretarie, assistenti, impiegati e altri lavoratori di ben 60 professioni diverse, che non hanno altro torto se non quello di fare onestamente e seriamente il proprio lavoro per un giusto compenso, vedranno cambiare drasticamente la loro vita e quella delle loro famiglie.
L’economia della Svizzera italiana non è in grado di offrire un’occupazione alternativa a queste persone. Il loro destino, il nostro destino, sarebbe la disoccupazione. Va detto forte e chiaro, senza se e senza ma.
Nessun piano B è possibile. Chi sostiene il contrario dovrebbe presentare proposte credibili, che finora non si sono viste. E se anche un piano B fosse immaginabile, potrebbe al massimo ridare lavoro ad una minima parte delle persone licenziate.
Grazie alla solidarietà confederale l’economia delle Svizzera italiana riceve dal Nord delle Alpi, dai nostri concittadini confederati più di 200 milioni ogni anno.
Questi 200 milioni, attraverso gli stipendi, pagano la spesa nei negozi, la fattura del meccanico, la bolletta del gas, il biglietto del cinema, le imposte federali, cantonali e comunali. Sono linfa vitale per i commerci e per lo Stato.
E se questa fonte dovesse inaridirsi il danno per le finanze cantonali sarebbe ancora maggiore, perché oltre alle mancate entrate la collettività dovrebbe accollarsi anche le indennità di disoccupazione e i costi sociali, magari anche di assistenza, per un numero di persone mai visto prima alle nostre latitudini.
Vale la pena rischiare di provocare tutto questo solo per dare, come dicono alcuni, “una lezione” alla RSI?
Come ogni organizzazione, come ogni azienda, anche la RSI non è perfetta, e non è un mistero per nessuno che anche il nostro Sindacato è spesso critico con la direzione. Ma questo fatto è in una certa misura fisiologico. Fa parte della dialettica sociale. La difesa delle condizioni di lavoro del personale non si può fare solo nel consenso, senza un minimo di conflitto. Se così non fosse né il sindacato né la RSI farebbero bene il proprio lavoro.
Sarebbe un gesto sciagurato quello di distruggere un bene comune, solo perché qualche aspetto del suo operato non ci aggrada. Criticare è lecito, ma non lo si può certo fare con una RSI che non esiste più.
Sostenendo questa iniziativa chi si dice nemico della globalizzazione è pronto a regalare la Svizzera italiana alle reti commerciali e ai grandi siti online, che di ogni identità e di ogni differenza sono il principale nemico.
Chi si dice difensore degli interessi della regione e del cantone è pronto a buttare sul lastrico più di 1100 persone con le loro famiglie e a far perdere alla nostra economia più di 200 milioni all’anno.
Chi si dice paladino della nostra gente è pronto a togliere alla Svizzera italiana una delle proprie voci principali, il palcoscenico sul quale ha potuto essere protagonista.
Chi si dice difensore della democrazia vuole far chiudere un media democratico, che ha alla propria base una cooperativa di cui chiunque può diventare membro, che è sottoposto a istanze di controllo aperte a tutti, alle quali chiunque può denunciare eventuali sospetti di parzialità o scorrettezza. Sospetti che molto raramente, occorre pur dirlo a difesa dell’onorabilità dei colleghi che rappresentiamo, sono stati confermati alla prova dei fatti.
Chi si dice difensore della democrazia è disposto a spalancare la strada ai media privati e soprattutto stranieri, che del controllo pubblico se ne fanno un baffo, e che saranno liberi di sottoporre i cittadini della svizzera italiana a tutta la propaganda politica che desiderano.
Non era questa la Svizzera italiana che chi negli anni ’50 e ’60 ha duramente combattuto per una vera Televisione anche a Sud delle Alpi voleva; una Svizzera italiana forte, protagonista, desiderosa di affermare la propria visione del mondo, di conservare la propria storia e il proprio passato, di condividere la propria esistenza, di costruire il proprio futuro.
E così è stato e lo potrà ancora essere, solo se le cittadine e i cittadini ticinesi e grigionesi voteranno no il prossimo 4 marzo.
Non colpiteci con il vostro voto.
Non fate un torto a voi stessi.
Votate NO il prossimo 4 marzo.
Intervento di Olmo Cerri, regista e membro di comitato di AFAT – Associazione Film Audiovisivo Ticino
Io sono un lavoratore dell’audiovisivo indipendente, ho fatto le mie formazioni in Ticino e proprio qui tutti i giorni lavoro. E non sono il solo. In Ticino siamo diverse centinaia, uomini e donne, giovani e meno giovani, e se dovesse passare l’iniziativa No Billag, dalle conseguenze imprevedibili, saremmo probabilmente tutti disoccupati.
Ogni giorno, con tanta passione, cerchiamo di produrre film e documentari. Con una tenacia che risulta inspiegabile ai più, mettiamo in piedi set cinematografici sul territorio, percorriamo centinaia di chilometri per intervistare persone, scriviamo pagine e pagine di sceneggiatura, giriamo ore di immagini, insomma, raccontiamo le storie che ci descrivono e che costituiscono la nostra identità e che speriamo possano aiutare a far crescere una riflessione sul nostro passato, presente e futuro.
Abbiamo realizzato centinaia di produzioni che negli ultimi anni hanno portato nel nostro cantone milioni di franchi che vengono da enti internazionali pubblici e privati e da catene televisive di tutto il mondo. Per i film che facciamo lavorano, oltre a tecnici e attori anche ristoratori, albergatori, autisti, manovali, elettricisti, venditori, sarte, cuochi e altre decine di figure professionali. La filiera dell’audiovisivo grazie a un forte legame con il territorio ha una rilevanza strategia per l’economia del nostro paese. Non per niente è stata creata dal dipartimento dello sviluppo economico e promossa dal Gran Consiglio, la Ticino Film Commission. Un efficace centro di competenze che da 4 anni promuove l’economia, il turismo e la cultura della nostra regione nel mondo dell’audiovisivo ma che però, purtroppo, non ha ancora i mezzi finanziari per aiutare i produttori indipendenti a sviluppare i nuovi progetti di film. E per fortuna che c’è la SSR che entra in coproduzione assicurando una percentuale dei costi dei film e che ci permette di avere una base per trovare altrove i fondi necessari. Senza questa quota di partecipazione sarebbe impensabile avviare queste produzioni cinematografiche.
Allo stesso tempo le decine di film e documentari di produzione ticinese su cui abbiamo lavorato sono stati distribuiti e visti in tutto il mondo. Portiamo l’immagine del nostro paese al mondo. E questo crediamo sia un valore indiscutibile. Il nostro lavoro è la voce di tutti.
Se passasse la “No Billag” vorrebbe dire condannare a morte non solo le radio e le televisioni svizzere, ma tutta la filiera dell’audiovisivo. Non ci sarebbero i Frontaliers e la Palmira, non ci sarebbe le serie TV, non avremmo storie che partono da Mariuccia Medici e arrivano al Bussenghi da raccontare, non ci sarebbe Sinestesia, non ci sarebbe Tutti giù, non ci sarebbe Non ho l’età, non ci sarebbe la mia vita da Zucchina e centinaia di altri titoli. Anche il Festival di Locarno subirebbe un duro colpo e così le scuola di cinema e tutte le istituzioni culturali e sociali legate, e non legate, alla filiera dell’audiovisivo.
Per questo invitiamo tutti a contrastare, con ogni media necessario, l’iniziativa No Billag.
Intervento di Graziano Pestoni, Presidente USS Ticino e Moesa
NO alla privatizzazione della radiotelevisione pubblica
Vent’anni fa, nel 1997, le Camere federali decisero di privatizzare la Posta svizzera e le telecomunicazioni. L’anno successivo fu la volta delle FFS. Poi Governo e Parlamento ci provarono con il settore elettrico, operazione riuscita parzialmente al secondo tentativo nel 2006. Nel 2007 fu adottata una nuova legge sul sistema di finanziamento degli istituti ospedalieri, che sta provocando una privatizzazione strisciante della medicina pubblica. Nel 2008 tentarono di privatizzare la SUVA, la nostra efficientissima assicurazione infortuni. Ma non è tutto. Molti cantoni e comuni cercarono di privatizzare ospedali, scuole, carceri, servizi di polizia, aziende elettriche, i servizi dei collaudi delle automobili, trasporti pubblici. Cantoni e Confederazione ridussero pure i finanziamenti ai politecnici e alle università. I responsabili di questi istituti dovettero fare appello all’economia privata (banche e industria farmaceutica), con tutte le conseguenze che si possono immaginare per l’indipendenza della formazione e la credibilità dei risultati delle ricerche. Ci furono pure molti sgravi fiscali e, di conseguenza, molte misure di risparmio sulla sanità, la socialità e la funzione pubblica.
Ci furono anche molti referendum, spesso vittoriosi. Ma la politica neoliberale, perché di questo si tratta, importata dall’Unione europea, portatrice di risultati disastrosi per il servizio pubblico, le condizioni di vita e di lavoro e, non da ultimo, per la democrazia, non è terminata.
Quanto sta succedendo in questi giorni nei servizi postali è solo uno dei tanti esempi. Dei 4100 uffici postali esistenti qualche anno fa, oggi ne rimangono 1300 e, se questa politica non verrà fermata, fra poco, in tutti la Svizzera ne avremo 127. In Ticino 5. E non è vero che ciò è la conseguenza dei cambiamenti di abitudine della popolazione. In realtà la posta sta cedendo tutto quanto è redditizio al privato, secondo il principio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite.
Ma cosa centra tutto questo con la radiotelevisione? Centra. Ricordo che
nel 2006, il Consiglio federale avrebbe voluto liberalizzare il mercato radiotelevisivo. Ci rinunciò, solo perché la Svizzera è troppo piccola. Non ha tuttavia rinunciato totalmente ai suoi obiettivi e non si è limitato a finanziare parzialmente con fondi pubblici anche le emittenti private. Ha voluto costringere anche la televisione pubblica a finanziarsi sul mercato, anche se in misura limitata. Questa modifica ha comportato una conseguenza di rilievo. La televisione pubblica non è più libera di definire i suoi programmi in funzione unicamente di criteri di interesse pubblico. Essa deve considerare le esigenze del mercato, soprattutto quello pubblicitario.
Ora, siamo confrontati ad un’offensiva di potenti gruppi privati. Ma la logica non cambia. L’iniziatica NO Billag prevede in realtà la privatizzazione pura e semplice della radiotelevisione pubblica.
Se fosse accolta, a fine 2018 la SSR dovrà chiudere, perché non avrà più un centesimo. Sarebbe una vera catastrofe. Sarebbe la fine di un’informazione locale, svizzera e internazionale assai equilibrata, la fine degli aiuti al mondo del cinema, la fine degli aiuti alle radio-orchestre. E, non da ultimo, la soppressione di migliaia di posti di lavoro qualificati.
La radiotelevisione pubblica, con tutti i suoi difetti, sarebbe sostituita da televisioni private, libere di trasmettere cosa, come e quando lo desiderano. Non ci sarebbe più la vigilanza di organismi pubblici. Sarebbe al servizio dei loro proprietari.
Privatizzare la radiotelevisione, significherebbe quindi conferire a gruppi finanziari svizzeri o stranieri un potere enorme, incontrollato e incontrollabile.
La fine della SSR non sarebbe solo la fine di un’azienda pubblica e la fine di un servizio pubblico: sarebbe la fine della democrazia. Perché, senza un’informazione equilibrata, non ci può essere democrazia.
Per tutto questo è importante votare NO il prossimo 4 marzo.
Intervento di Nicola Morellato, segretario regionale syndicom
Syndicom sostiene i colleghi e le colleghe della RSI e invita tutta la popolazione a partecipare attivamente a questa importante campagna di sensibilizzazione contro l’iniziativa NO Billag in votazione il prossimo 4 marzo 2018.
L’approvazione dell’iniziativa avrebbe conseguenze devastanti poiché implicherebbe la soppressione di molti posti di lavoro qualificati, l’aumento di costi sociali e della disoccupazione, un generale peggioramento della qualità dell’informazione.
Il servizio pubblico dell’informazione verrebbe messo fortemente a rischio.
A trarne beneficio sarebbero i grandi gruppi editoriali privati (gli unici a poter operare sotto costo in questi anni di grande crisi dell’editoria) che si approprierebbero dei principali mezzi d’informazione.
Il nostro sistema democratico verrebbe fortemente intaccato.
Va ricordato che in Ticino da più di 13 anni manca un Contratto Collettivo di Lavoro per i giornalisti. I salari sono fermi da anni, i carichi di lavoro in aumento, le risorse sempre più limitate e si fatica a trovare il tempo e le risorse necessarie per fare approfondimento.
Il CCL SSR oggi funge da riferimento per la categoria poiché costringe l’editoria privata a garantire condizioni lavorative competitive. Dovessimo perdere questo CCL di riferimento, il settore subirebbe un drammatico peggioramento delle condizioni lavorative.
Syndicom, il sindacato dei media e della comunicazione, si batte quotidianamente per il mantenimento di un servizio pubblico di qualità nei suoi settori di competenza (Posta, Swisscom, Press) e ribadisce l’importanza di lottare contro ogni tentativo di peggioramento del servizio pubblico nel suo insieme.