L’OSI? Diventerà un jukebox

Disimpegno. Disimpegno su tutti i fronti. Al nuovo mantra SSR non sfugge neanche l’OSI, che con il silenzio-assenso della RSI nel giro di alcuni anni sarà ridotta a funzionare sulla base del principio “tu suoni, noi ti paghiamo”. Tra le molte voci indignate che si sono espresse a difesa dell’Orchestra (come quelle di Pietro Antonini e di Giovanna Masoni Brenni alla recente assemblea della CORSI) anche quella dell’ex collega Carlo Piccardi. Ripubblichiamo qui un suo articolo pubblicato da La Regione Ticino.

OSI: domande e risposte

Può la Svizzera italiana permettersi un’orchestra stabile? È la domanda emersa negli ultimi tempi a seguito delle nubi che si sono addensate sul destino dell’OSI dopo la disdetta della convenzione che la lega alla SSR e soprattutto dopo l’esito della trattativa che prevede una drastica riduzione del contributo finanziario dell’ente radiotelevisivo nazionale nei confronti di tale struttura. A fronte del numero delle orchestre stabili in Svizzera (14) – e del fatto che, per quanto a volte si presenti rinforzata con aggiunti, in pratica si tratta di un’“orchestra da camera” (con un modesto organico stabile di 41 componenti) – essa rientra perfettamente nelle proporzioni rispetto all’entità demografica regionale servita. Al di là dell’aspetto quantitativo nel nostro caso conta però anche, se non soprattutto, l’aspetto qualitativo del significato di costituire essa un’istituzione portatrice dei valori di una minoranza linguistica e culturale, organicamente chiamata a rafforzarla insieme con le altre istituzioni (scuole, biblioteche, musei, università) che ne delineano il profilo rappresentativo.

In tali scenario l’OSI è o non è un lusso? Posta in questi termini la domanda è recente, ma, se inquadrata nel contesto fondativo del Cantone Ticino, risalendo di quasi due secoli, in un certo senso si poneva già a Stefano Franscini. Per quanto altre fossero le priorità del nostro grande uomo politico, essa può essere vista come un sottinteso alla riflessione riportata ne “La Svizzera italiana” (1837), quando, prendendo atto dell’“indifferenza” e della “freddezza” con cui furono celebrate le prime feste nazionali (Festa federale di ringraziamento, ecc.), egli affermava: “I nostri uomini di stato non hanno ancora riflettuto che un po’ di magnificenza non è in simili congiunture un dispendio superfluo: ben vi hanno pensato i principi e ne san profittare a illudere il povero popolo”.

Queste parole tradivano la volontà di non rassegnarsi alla marginalità sociale e culturale, attirando l’attenzione sui compiti e sui doveri derivanti dall’indipendenza e dall’autonomia conquistate dal Cantone, cioè sui valori e sui simboli da affermare e sulla loro concretizzazione in un dialogo alla pari con le altre realtà culturali della nazione. Quindi l’orchestra – tanto più oggi con lo sviluppo raggiunto dalla nostra vita musicale, concretamente misurabile nella risposta motivata e massiccia che il pubblico sta dando alle manifestazioni del LAC – in tale contesto entra con un ruolo di primo piano.

In verità la strada per arrivare a questo stadio fu lunga. Personalmente vi fui coinvolto in uno dei momenti cruciali, quello che nel 1991 portò il complesso, dopo quasi 60 anni, al distacco dalla SSR per diventare orchestra regionale con la creazione della Fondazione per l’Orchestra della Svizzera italiana. Come Responsabile (di fresca nomina) dei programmi musicali di Rete Due feci parte del gruppo di lavoro chiamato a condurre la trattativa con il Cantone per la nuova struttura. In quel negoziato il ruolo della RSI fu dunque primario. Non fu facile, poiché i pregiudizi denunciati decenni prima dal Franscini sul “lusso” che rappresentava un’orchestra allignavano ancora profondamente, ma, grazie alla tenacia del direttore Marco Blaser da una parte e dal Capo Dipartimento Educazione e Cultura Giuseppe Buffi dall’altra, si riuscì ad ottenere la decisione favorevole del Gran Consiglio.

A distanza di un quarto di secolo la crisi si ripresenta, con la minaccia di ridurre il contributo della SSR all’OSI in una misura che rischia di comprometterne l’esistenza, ma sorprendentemente in una situazione che vede la RSI defilata. La trattativa infatti è stata condotta tra la SSR e la FOSI, non solo tenendo fuori la RSI ma dove la radiotelevisione nazionale è rappresentata da alcuni giuristi e non da rappresentanti del programma, stabilendo la materia da dibattere a livello delle questioni “tecniche” (finanziarie, logistiche, organizzative) e non a partire dal principio del servizio all’ascoltatore e al telespettatore. Ci troviamo quindi di fronte a uno stravolgimento, che da una parte non rispetta il ruolo primario del servizio che l’orchestra svolge presso il pubblico della regione, e dall’altra mostra una netta carenza nella definizione della funzione dell’orchestra in rapporto al “programma”. Nel comunicato emanato, la decisione della SSR di uscire dal consiglio di fondazione dell’OSI per diventare un “cliente” che ne acquista le prestazioni, è infatti accompagnata dall’affermazione di non più voler essere un’organizzatrice di concerti, come se il concerto pubblico in quanto tale non facesse parte della tipologia radiofonica (rispettivamente televisiva). Ciò denota una palese incompetenza. Semmai è vero proprio il contrario, l’alternativa essendo la registrazione del programma musicale senza pubblico (incapace quindi di distinguersi dalla trasmissione “asettica” di un disco), mentre tutte le radio al mondo tendono a caratterizzarsi (nei tradizionali concerti serali) attraverso l’ascolto integrato degli applausi che, oltre a trainare il consenso dell’ascoltatore, ne sollecitano l’immedesimazione. Da questo punto di vista constatiamo come la SSR stia operando una più che discutibile fuga in avanti rispetto allo scenario europeo, sganciandosi completamente dal principio di gestire in proprio dei complessi musicali. È vero che, se da parte degli enti radiotelevisivi abbiamo assistito negli ultimi decenni alla riduzione del numero delle orchestra radiofoniche, il principio per cui un ente radiotelevisivo gestisce un’orchestra non è mai stato messo in discussione. Un rapido giro di verifiche nella rete ci mostrerebbe infatti che Austria, Danimarca, Finlandia, Irlanda, Olanda, Norvegia, Spagna, Svezia mantengono una propria orchestra radiofonica; la BBC, oltre a quelle centralizzate a Londra (BBC Concert Orchestra, BBC Philharmonic), gestisce anche quelle regionali (in Scozia, nel Galles, nell’Ulster); l’Italia ne ha soppresse tre ma ha rafforzato l’Orchestra nazionale della RAI di Torino, che promuove addirittura in giri di concerti internazionali. La Francia, oltre a gestire l’Orchestre National de Radio France, organizza il Festival de Radio France et Montpellier, smentendo l’“ideologia” che ha preso piede presso la SSR sulla distinzione artificiosa tra “prodotto per il programma” e “concerto pubblico”. Per non parlare della Germania con 14 orchestre radiofoniche  e i paesi dell’est in cui lo statalismo del periodo comunista aveva creato orchestre in decine e decine di stazioni. Si dà così il paradosso che l’Unione Europea di Radiotelevisione, la quale gestisce la piattaforma dello scambio di trasmissioni e registrazioni di concerti radiofonici, pur avendo sede a Ginevra vede la radiotelevisione svizzera, a causa della politica restrittiva della SSR, porsi fra quelle che hanno meno concerti propri da offrire.

Come mai siamo giunti a questo punto?

Tralasciando per il momento le argomentazioni sui compiti che competono alla radiotelevisione come produttore, ci si chiede perché la FOSI debba trovarsi ad interloquire con dei burocrati provenienti dalla direzione generale della SSR e non anche con la RSI in quanto produttore? Chi l’ha voluto: la SSR? La RSI stessa? Qualunque sia la risposta, nell’uno o nell’altro caso, di fronte a quello che da parte della SSR si presenta come un aut aut (visto il termine di nemmeno tre mesi concesso alla FOSI per prendere posizione), ne esce umiliata la nostra minoranza, non considerata nelle sue caratteristiche, la quale nel tempo è riuscita a far crescere un complesso artistico di primaria importanza per il paese e per la stessa radiotelevisione, ma che, col rischio di non trovare una concordata via d’uscita, si confronterebbe con la perdita di un pilastro della nostra vita culturale.

In tale scenario c’è anche da chiedersi come mai resti silente la CORSI, il cui compito è quello di preparare e animare “la riflessione sul radicamento dell’azienda nel contesto sociale della Svizzera italiana”, come recita il suo statuto implicante anche la possibilità di essere consultata sugli affari del Consiglio di amministrazione della SSR “per tramite del suo presidente regionale”, presidente che di quel consiglio è parte costitutiva con la possibilità di far sentire la voce della regione.

Infine rimane incomprensibile il momento scelto dalla SSR per annunciare tale svolta drastica, cioè in prossimità del dibattito alle camere federali sul rinnovo della concessione alla SSR e nell’incombere dell’iniziativa “No Billag”, fornendo un argomento in più a chi mira a mettere in discussione la correttezza del suo ruolo di servizio pubblico.

Carlo Piccardi